Aphorisms, songs, poetry ... let beauty take over the world.

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

biancabrotto

Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

Lo so che non è facile accettare quel che ci accade soprattutto quando la vita è spietata e noi, travolti da tifoni fisici o emozionali, ci ritroviamo annientati. Paralizzati.

Spesso ci corazziamo appesantendo il nostro corpo di chili e cose da fare, o finendo per far pagare la nostra rabbia a chi non c’entra, ma ci è vicino.

Eppure ci siamo rinchiusi da soli fra le sbarre interiori del mal vivere ma, se ci accorgiamo del nostro stato di prigionia, da soli possiamo anche uscirne.

Nietzsche, con il suo «amor fati» (amore per il proprio destino), parla dell’importanza di accettare, finanche con gioia, quanto ci accade come se l’avessimo scelto, non quindi in forza della rassegnazione, ma della libertà di far splendere l’Oltreuomo (Übermensch), un individuo che ama eternamente la vita così com’è nel suo continuo ripetersi.

Secondo il filosofo tedesco, infatti, l’uomo che abbraccia l’amor fati attiva la propria potenza creativa trasmutando le crisi in opportunità e lo può fare perché è libero di fidarsi e, qualsiasi cosa accada, di dire: «Questo è ciò che mi serve».

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Questa è la storia di Angela che, nel tentativo di fuggire dal dolore, si inabissa in una tenebra senza fine. Una vita, la sua, fatta del profondo oscillare di un pendolo dalla traccia invisibile.

Traccia numero 1: l’infanzia, dall’orfanatrofio all’adozione.

Due: l’adolescenza, dal troppo amore alla ribellione.

Tre: il lavoro, da lavapiatti a ottima cuoca.

Quattro: le relazioni, dall’uso degli uomini all’incontro con l’amore autentico di Luca.

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Si chiama Siluana e abita in Romania in un paesino di montagna vicino alle vecchie miniere e ai monaci eremiti. La sua giornata inizia occupandosi della neonata di 2 mesi, poi del padre paralizzato, infine degli altri quattro figli.

Suo marito passa la vita al bar; è un bravo muratore ma, quando lavora, quel che guadagna «se lo beve tutto» racconta Siluana che, figlia di genitori alcolizzati, si è scelta quell’uomo sempre ubriaco «perché aveva un cuore buono» dice.

A casa è tutto sulle spalle di Siluana ed è tipico vederla, insieme ai figli, pitturare una ringhiera o spaccare legna. Sembrerebbe una vita grama, la sua, se non fosse che lei è gioiosa. Di più. Radiosa.

«In ogni cosa vedo qualcosa di più grande» afferma. Per questo non si lamenta mai e ha sempre la battuta pronta. I figli hanno la sua stessa serenità mentre assolvono le varie responsabilità quotidiane. 

«Sto dando loro quel che non ho avuto io. Siamo una bella squadra - esclama ridendo - e perché abbiano riferimenti maschili sani, li porto spesso dai monaci eremiti».

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Stanotte il lago ruggisce come il mare. Le onde si infrangono sulla battigia mentre due anziani giocano fra i cavalloni tenendosi per mano. Si girano. Mi guardano. Sorridono. Il collegamento a Nino e Jole è immediato.

Lui pugliese, lei di Nave, i nonni di Manila Barbati amavano scherzare con la vita.

«Di cavolate ne facevano tante - ricorda la bravissima attrice - tipo una sera perdere tutti i soldi al Casinò ma ogni volta, passato il primo colpo, il nonno esclamava: però, che vita!»

Nino era direttore di banca, amava l’arte, scriveva poesie per i compleanni, trovava una parola buona per tutti e, non prendendosi mai sul serio, affrontava la quotidianità con leggerezza sdrammatizzando sempre.

Un esempio: quando chiamava le quattro figlie a tavola, mentre Jole canticchiava appoggiando i fiori freschi sul tavolo, nella confusione del momento Nino simulava di sedersi dove mancava la sedia mangiando con le posate fantasma. 

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Io, quando parlo di Nicolò, mi emoziono. Sì perché un ragazzo di trent’anni che già da sette, con la sua organizzazione no profit «Still I Rise», sta rivoluzionando il mondo della scuola, è un angelo in missione, e gli angeli vanno riconosciuti, sostenuti, onorati.

Sono uomini e donne simili a noi, gli angeli umani; hanno anche loro scatti di rabbia e tonfi di delusione, ma il loro cuore batte imperterriti rintocchi di amore sconfinato.

E quando ami così, ami a prescindere dall’affetto personale che ti lega ad amici e parenti. Di quello siamo capaci tutti, più o meno.

L’Amore, quello con la «a» maiuscola, è incondizionato e raggiunge chiunque incroci la tua strada perché non percepisci distanza né differenza alcuna fra te e gli altri. Sei nel Tutto, nell’Uno «e dove l'anima è Uno - afferma Meister Eckhart - lì è Dio».

Eppure Nicolò di Dio non parla mai, probabilmente perché è in collegamento diretto, afferma suo nonno seduto al mio fianco alla proiezione del DocuFilm sulla vita di Nicolò «School of life» a Cremona. 

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Me li vedo, fra fichi d’India e ginestre, gli zoccoli degli asini avanzare lenti lungo le mulattiere della selvaggia Alicudi, l’isola più occidentale delle Eolie dove le distanze si misurano in gradini e dove, al gradino 357, i muli si fermano per scaricare il loro prezioso carico di libri e far ritorno al porto a prenderne altri.

L’avventura risale al 2017 quando, a due anni dalla scomparsa dello scrittore Franco Scaglia, la moglie e attrice Mascia Musy decise di donare i libri di Franco all’amata Alicudi,

«un piccolo paradiso dove l’uomo non ha mai potuto comandare - racconta Mascia - e dove invece comanda ancora la Natura, ovvero il mare e il vento, il sole e la luna, la flora e la fauna, le stelle; un angolo incantevole che ti regala ogni istante la meravigliosa sensazione di far parte del Tutto».

L’impresa sembrava folle: trasferire 7000 volumi da Roma ad Alicudi e poi salire con i muli fino al gradino 357 ma, come Mascia e Franco amavano dirsi citando Ezra Pound, «se un uomo non ha il coraggio di credere nelle proprie idee, o quell’uomo non vale nulla, o quelle idee non valgono nulla». 

È nata così la «Biblioteca tra cielo e mare Franco Scaglia» nella tranquilla Alicudi che, con meno di 70 abitanti, 600 capre selvatiche e circa 7500 libri, è un angolo di incontaminata purezza, cielo turchese, scogliere a picco sul mare, pendici vulcaniche, profumata macchia mediterranea, labirinti di scale, case in pietra lavica e parole, milioni di eterne, pazienti parole.

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Era in dubbio nel 1940, dopo un mese di carcere, se divulgare o meno il suo diario «Libertà in prigione» lo psichiatra fondatore della Psicosintesi Roberto Assagioli, ma lo pubblicò

conscio di come le prigioni dell’esistenza riguardino tutti e di come da ognuno di noi dipenda «il far uso di ogni circostanza a scopi costruttivi per allenare e sviluppare qualche parte del proprio essere, o per preservare la serenità, o per ricavare interesse, gusto e gioia da qualsiasi cosa» scrive.

Capita infatti di trovarci in situazioni, nostre o altrui, nelle quali il mondo, d’improvviso, ci crolla addosso. O ci implode dentro. Penso a quando da sani e autosufficienti ci ritroviamo ammalati e dipendenti dagli altri, o quando eventi dolorosamente affilati ci frantumano il cuore. Di colpo siamo al muro della vita. Vuoti. Inermi. 

Eppure, quando Assagioli è stato messo in carcere accusato di attività pacifiste e internazionaliste invise al regime fascista, ha deciso di trasformare questo contrattempo della vita in un’occasione di crescita e rinnovamento interiore.

Lo scatto fondamentale, per lui, è stato capire che, seppur privato della libertà fisica, nessuno poteva privarlo della possibilità di scegliere quale valore e significato assegnare a quell’evento.

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 Arianna ha da poco sostenuto l’esame dell’unica materia per la quale è stata rimandata a settembre. La scuola la chiamerà solo in caso di bocciatura, ma la ragazza è tranquilla perché l’interrogazione è andata bene.

Eppure la telefonata arriva e la coglie in contropiede. Pugno nello stomaco e fiume di lacrime.

A seguire una seconda chiamata le annuncia che si tratta di uno scherzo. Arianna è sconvolta. Il colpo inferto ha lasciato un solco profondo.

Cinque anni dopo. Secondo anno di università (fisioterapia) e primo di tirocinio in un centro specializzato.

Per un mese e mezzo, 40 ore a settimana, la ragazza viene interrogata sul funzionamento del corpo umano e le fanno anche trattare in autonomia alcuni pazienti essendo preparata e professionale. Il centro le propone, a studi terminati, di lavorare lì. 

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Siamo nel 2020. Viene licenziata dall’oggi al domani, Claudia, perché i figli dell’anziana presso la quale è colf e badante, possono occuparsi della madre dovendo chiudere l’attività causa avanzare del Covid.

Pochi giorni e la donna si ritrova con due euro in tasca e dieci euro in banca. Non è la prima volta che la povertà viene a trovarla, ma quel che sta per accadere ha dello straordinario.

Dopo averle tentate tutte, Servizi Sociali compresi, alcune amiche fanno una colletta di mille euro e gliela consegnano. Claudia rifiuta l’aiuto perché sente che non è la soluzione; ci è già passata da quel tipo di sostegno e, visto che il «calcio della vita» ritorna, sa che accettare la busta non le permetterà di estrapolare l’insegnamento evolutivo che quella lezione porta con sé.

Stavolta starà occhi negli occhi con la paura per affrontarla, fino in fondo. Le ore scorrono buie, terribili. La sessantenne si gratta la fronte fino a scarnificarla. Piange percossa da un grido violento, ma resta ferma a osservare il suo terrore.

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L’uomo folle escogitava modi originali per sorprendere i compaesani con le sue parole. Un giorno, al megafono, trattò il non senso del vivere «sotto l’incalzare degli obblighi, impegnati a sommergere le nostre bassezze nella menzogna e nell’opportunismo.

Tutto ciò fa sì che i pochi attimi di gioia, il più delle volte, soddisfino soltanto il nostro egoismo. Ecco perché l’uomo ha bisogno dell’Amore.

Senza amore l’uomo muore prima perché non riconosce più il bene e finisce per identificare il male con il dolore e il bene con il piacere, stravolgendo il senso della vita e camminando verso l’autodistruzione».

Poi l’uomo folle spariva ben sapendo che «per ognuno c'è un tempo per ogni cosa».

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«Milano fumava. Era asfalto rovente che scorreva in rivoli di sudore fra i palazzi oppressi dalla calura. L’aria si attaccava umida ai polmoni, pesando afosa nei petti stanchi (…)

Ruben, appoggiato al bancone, sorseggiava un bicchiere di menta fresca; era la sua decima estate alla bottega e non gli era mai passato per la mente di chiudere i battenti per andare in vacanza.

In fondo cos’era la vacanza? Una miglior condizione di vita, un cambio di ritmo per ricaricare le pile, ma a lui tutto questo succedeva già. Quando Ruben lavorava ad una scarpa, lo faceva con passione, curandola nei dettagli, anche quelli non visibili;

nascondeva sempre, fra suola e tomaia, una manciata di parole scritte a china, parole positive, parole che avrebbero fatto bene agli acquirenti, calpestando, insieme a loro, asfalto e terra. E talvolta fiori.

Le sue creazioni erano preghiere di cuoio marchiate di sorrisi. Quando usciva dal laboratorio amava passeggiare di notte, o al mattino presto, lungo il naviglio, ascoltando il rumore dei propri passi (…)

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Omar è un cittadino incallito e un imprenditore di successo dedito al lavoro, al lavoro e al lavoro. I suoi tre fratelli idem. L’unica sorella si è accomodata in un matrimonio confortevole e si gode i molteplici stimoli che la vita cittadina offre. La mentalità partenopea inculcata loro sotto pelle dal padre è che la famiglia debba sempre stare unita. A qualunque costo.

Nonostante il capostipite abbia girato da parecchi anni la boa degli ottanta, è onnipresente e sempre attento a controllare le ore che i figli trascorrono in azienda perché quella, dice il vecchio, «è la prima figlia e deve sempre essere al primo posto».

Così è e non si discute, almeno fino a giorno del grande crack che, in questa storia, arriva pochi mesi dopo la dipartita improvvisa degli anziani genitori vittime di un incidente automobilistico. La famiglia perde i timonieri energetici, ma il DNA dei cinque figli ne porta impresso l’imprinting.

Passano i giorni, succedono cose e Omar si sente sempre più a disagio per via di una domanda imbarazzante che continua a girargli dentro: «Sei felice?» È allora che decide di osservarsi per la prima volta. 

«Su quel treno ci ero nato e, proprio perché ci ero nato, non sapevo di esserci - racconta - Per me quel modo di stare al mondo era normale. D’altronde un pesce non si accorge di essere nell’acqua finché qualcuno non lo tira fuori.

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Sono due le cose che Eva non fa: elargire elemosina e permettere alle persone, in particolar modo se sconosciute, di avvicinarsi troppo a lei.

Per questo ha di che stupirsi Eva quando, alla richiesta di denaro del mendicante incontrato in un torrido pomeriggio di luglio nel piazzale del supermercato, invece che denegare borbotta: «Quando esco te li do».

La donna entra nel supermercato e, mentre fa la spesa, continua a pensarci. È turbata. Perché non ha ignorato l’homeless come d’abitudine?

Forse perché non si tratta del solito zingaro che piantona la zona carrelli, rimugina fra sé e sé, ma di un tedesco con le pomelle rosse e una bicicletta verde flou nuova di pacca con attaccato un rimorchio di quelli per portare i bambini che, in questo caso, contiene tutti gli averi dell’uomo.

Mezz’ora dopo Eva esce con il carrello pieno di spesa e si avvicina al mendicante per consegnargli due euro.

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«Giù le mani da mio figlio!» gridò l’anziana in zoppicante avvicinamento. «Scusi, signora, non volevo». Ritrassi subito le dita dal piedino che avevo incautamente accarezzato.

«Non volevo un corno, ma le sembra?» urlò la donna sovrastando il sommesso brulichio della sala. «Che maleducata!»

Indietreggiai di un passo: «Guardi che proprio non intendev…»

Si rabbuiò: «Non bevevo un corno! Qui nessuno le dà da bere!» sbraitò raggiungendomi e prendendo frettolosamente in braccio il piccolo. Lo osservò attentamente per accertarsi che fosse tutto a posto, poi mi guardò con aria di sfida: «E allora: l’ha capita?»

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Alla festa della scuola intervenne il padre di un ragazzo con disabilità fisiche e mentali. Iniziò interrogandosi sull’ordine e sull’armonia che si manifestano in natura quando nessuno ne disturba l’equilibrio e, traslando poi sul figlio, si chiese: «Herbert non impara come gli altri. Non capisce come loro. Dove si trova l’ordine naturale delle cose nel suo caso?». Il silenzio calò sulla platea.

L’uomo proseguì: «Quando nasce un bambino come Herbert, il mondo riceve una rara opportunità: quella di mostrare la vera essenza dell’animo umano che si rivela nel modo in cui gli altri accolgono e trattano la diversità».

L’uomo continua raccontando sul web un episodio indimenticabile: «Era estate. Stavo passeggiando con Herbert vicino a un campo dove alcuni ragazzi giocavano a calcio. Herbert mi chiese: secondo te mi farebbero giocare con loro?».

Fu un attimo. Nel padre si accese una speranza talmente coraggiosa da farlo dirigere subito verso uno dei giocatori per porre la domanda. «Il ragazzo guardò gli amici, esitò, poi disse: stiamo perdendo tre a zero, mancano dieci minuti alla fine. Va bene, può unirsi a noi. Gli faremo tirare un rigore».

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Pasqua ci ha appena ricordato che il senso della nostra vita è saper rinascere dopo essere stati fatti a pezzi dall’esistenza. Come Alessandra Baruffato.

Questa è la sua storia che, uscita dalle pagine «Occhi di riso» dei social, è diventata un libro che racconta, a chi si sente solo, come nessuno lo sia giacché il dolore può tramutarsi in forza, lo smarrimento in consapevolezza, la paura in amore.

«Cinque anni fa, con la nascita di Luna, la mia vita è cambiata per sempre - racconta Alessandra - e quel che ho sperimentato non è stata una frattura, ma un’espansione. Quella notte il tempo sembrava essersi fermato. Ero sopraffatta da un turbine di scenari e paure. Reduce da due aborti, avevo idealizzato il primo contatto di pelle con Luna».

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Arriva dritta al cuore, Chiara Amirante, nel condividere con centinaia di ragazzi le parole che a lei hanno cambiato la vita: «La verità vi farà liberi».

Il punto di partenza, dice la fondatrice della Comunità Nuovi Orizzonti, è proprio il nostro dono di fabbrica: la libertà. Il traguardo? La gioia piena «non l'ebrezza di un momento, ma la pace del cuore che nessuno ti può togliere».

L’errore di base Chiara lo racconta così: «Dottore, io che non bevo, non fumo, non mi drogo, non ho ludopatie, non vado a donne, non perdo tempo sul cellulare, posso vivere fino a cent’anni? Risposta: Sì, ma cosa campi a fare?»

Sembra infatti che lo star bene sia tutto un togliere, quindi il contrario della libertà, quando invece la vera libertà è il non essere schiavi delle dipendenze e delle abitudini malsane che, mentre elargiscono fugaci appagamenti, ci svuotano dentro.

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Ugo è un bambino che fa fatica a seguire le regole. A nulla valgono le sgridate e i castighi degli adulti. L’argomento salta fuori in macchina mentre Margherita e Bianca stanno viaggiando a bordo di una Panda.

«Ugo è un po’ monello» esordisce Margherita.

La risposta di Bianca è immediata: «Non è monello. È piccolo».

Margherita: «Ci vuole pazienza con un bambino così».

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Era Capodanno la prima volta che si incontrarono. A Gg (Giangiacomo) di quella sera passata a suonare la chitarra e a cantare restarono indelebilmente dentro solo due occhi e un sorriso: Gaia. Era il 1995. Avevano 30 anni.

A seguire Gaia e Gg percorsero dieci anni di strade diverse prima di ritrovarsi e non lasciarsi più. «Ci siamo sposati nel 2011. Non abbiamo avuto figli, ma noi due ci bastavamo. Eravamo complici, amici, amanti. Una storia d’amore perfetta.

Poi, il 30 luglio 2015, a Gaia venne diagnosticato un raro melanoma oculare e da quel giorno lei, che era medico, quando le parlavo della gioia di invecchiare insieme mi fissava dicendomi: non succederà».

Eppure le cure sembravano funzionare tanto’è che, superato il controllo di giugno 2021, la coppia trascorse un’estate finalmente serena. Quattro mesi dopo, tuttavia, la TAC non dava scampo. Tentarono a Tel Aviv una nuova terapia che non funzionò. 

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È giorno di mercato nel caratteristico borgo bresciano. Le bancarelle straripano di cibo, vestiti, scarpe. Il cartone appeso vicino ad un cumulo di maglie recita a caratteri cubitali “Grandi Marche 10€”. Gilda sta scavando nel mucchio. Piera, un’altra donna del paese, la raggiunge.

Il dialogo tra le due renderebbe meglio in dialetto stretto.

«Devo dirtene una grossa, Piera, ma 'fa sito’ perché non voglio noie» sbotta agitata Gilda. Piera, con un paio di mutande ascellari in mano, scruta interrogativa l’amica. «Metti che me le portano via, ‘te set’» continua misteriosa Gilda.

«Ma cosa? Oh, comunque ‘me dise nient’» la rassicura Piera soprannominata “la radio”.

«Le mie patate hanno il virus - bisbiglia Gilda all’orecchio della comare stringendo fra le dita una maglia fucsia XXL - Non l’ho detto neanche al mio Primo perché ‘te set’ che si agita subito» aggiunge. 

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